Nel presente articolo si presenta la mindfulness – dall’inglese “presenza mentale” o, più semplicemente, consapevolezza – come una possibile via attraverso la quale promuovere l’efficacia delcoping nell’intervento di counseling psicologico sullostress.In particolare, si argomenta il ruolo che in tale contesto assume la promozione dell’insight meta-cognitivo, in merito proprio al miglioramento delle capacità di fronteggiamento del cliente nei confronti del distress psicologico, che permette di abbandonare i vecchi schemi comportamentali basati su tentativi inefficaci di controllo ed evitamento della propria esperienza privata, fatta di pensieri e sentimenti disturbanti, mediante la facilitazione e lo sviluppo di un atteggiamento di accettazione.
Introduzione
Che cosa vuol dire adottare un approccio mindfulness al counseling, con particolare riguardo alla problematica dello stress? Ma soprattutto, quali le specifiche abilità, di mindfulness nella fattispecie, insieme a quelle di counseling, connoterebbero l’intervento in oggetto per lo psicologo?
Per rispondere a queste domande, ci sembra prima doveroso fornire una breve introduzione al concetto che la mindfulness assume nel contesto della psicologia contemporanea.
Oramai svincolata ampiamente dai riferimenti culturali e religiosi orientali che ne hanno connotato inizialmente l’uso nella pratica clinica in termini di meditazionevipassana, in psicologia, mindfulness è un costrutto bidimensionale, rappresentato dai seguenti termini (Bishop et al., 2004):
- Consapevolezza;
- Accettazione.
Cosa vorrebbe dire sperimentare gli eventi, personali o ambientali che dir si voglia, con consapevolezza e accettazione? La mindfulness oggi rappresenta, per gli interventi psicologico-clinici, l’ultima frontiera del reframing (Harris, 2009) attraverso lo sviluppo dell’insight meta-cognitivo (Segal et al, 2006), che in termini di mindfulness, significa comprendere la natura essenzialmente vacua ed impermanente degli eventi privati, quali pensieri e sentimenti difficili, fonte di stress psicologico, dai quali si cerca inutilmente di fuggire, attraverso strategie di controllo ed evitamento, al fine di proteggere la propria autostima. Si parla in particolare qui dello stress psicologico, ossia della minaccia percepita, a livello simbolico, per la propria autostima. La mindfulness promuove un nuovo contesto esperienziale (re-fraiming, appunto), sicuro e contenitivo, affinché i rigidi “schema” di processo e di contenuto, modelli mentali e vecchi pattern neuro-cognitivi, possano essere modificati, promuovendo così la flessibilità psicologica(Hayes et al., 1999; Segal et al., 2006). La mindfulness aiuta a sentire meglio, piuttosto che a sentirsi meglio. La mindfulness insegna a credere di più alla propria esperienza, ancorata al qui e ora, piuttosto che alla propria mente, ancorata ai vecchi schemi.
L’attenzione è il processo psicologico determinante ai fini dello sviluppo della consapevolezza (la comprensione della natura impermanente e vacua della mente, fatta di pensieri, sentimenti e dell’inefficacia delle proprie strategie di controllo ed evitamento nei confronti dello stress percepito) e dell’accettazione (la disponibilità verso le esperienze private difficili, la legittimità a concedersele, senza lottare contro di esse). In tal senso l’attenzione è applicata sia aicontenuti che ai processi dell’esperienza.
Attenzione e Consapevolezza
La consapevolezza riguarda in particolare il prestare attenzione al contenuto dell’esperienza, nei seguenti termini (Linehan, 2001):
- Osservazione;
- Descrizione;
- Partecipazione.
L’osservazione la capacità di “fare un passo indietro” rispetto alla “storie narrate dalla propria mente”, ossia di semplicemente di guardare la propria mente, piuttosto che guardare dalla propria mente. Accompagnare gli eventi, le emozioni e le altre risposte comportamentali senza necessariamente provare a limitarle, se dolorose, o prolungarle, se piacevoli, è l’abilità in discussione. Osservare un evento significa operare da un contesto esperienziale distinto da quello dell’evento stesso, in quanto ciò che si osserva non è ciò che si è. Tale contesto è un livello mentale che in psicologia della mindfulness assume il nome di “mente saggia” (Linehan, 1993), come anche quello di “sé osservante”(Harris, 1999).
La descrizione è la capacità di adottare un’etichetta verbale per ciò che è avvertito a livello di eventi privati, e ciò è funzionale sia per il self control che per la comunicazione interpersonale, in quanto ci si assume la responsabilità di ciò che si sta provando, senza attribuire la stessa agli eventi esterni e contestuali. Le componenti fisiche (ad esempio della paura, come “sento i muscoli del mio stomaco tendersi e quelli della mia gola comprimersi”), non vengono allora confuse con le percezioni della situazione e dell’ambiente (ad esempio “sto per sostenere un esame”) o con la produzione di pensieri disfunzionali (ad esempio “sto per fallire questo esame”), confondendo i medesimi con i fatti (ad esempio “mi sento incapace” rispetto a “sono incapace”). La descrizione, senza contestare il contenuto dell’esperienza privata, permette di vedere la stessa per quello che è, ossia parole, immagini, sensazioni, e, in sintesi, come meri eventi della consapevolezza, piuttosto che fatti (Linehan, 1993; Hayes et al, 1999).
La partecipazione è la capacità di essere tutt’uno con l’attività del momento. Si rinviene qui un’assonanza con la psicologia positiva, che parla del flow, o esperienza di flusso (Csikszentmihàly, 1990), ossia la gratificazione connessa all’essere totalmente focalizzati in un compito, dove la qualità dell’azione è spontanea e viene portata avanti anche senza autoconsapevolezza. Numerose persone riportano uno stato di funzionamento psicologico ottimale quando sono concentrati in attività a motivazione intrinseca, come quando ci si dedica a degli hobby, o quando si svolge un lavoro altamente remunerativo sul piano morale, o quando ancora ci si dedica totalmente alla cura della propria crescita personale o delle relazioni interpersonali, della famiglia e via dicendo. Lo scopo ultimo della mindfulness è infatti quello di promuovere il benessere psicologico, l’impegno in ambito di vita di valore della persona, senza che questa si preoccupi troppo di “come si sente” o del suo “valore personale”, quanto piuttosto che la stessa si occupi di ciò che conta, alla costruzione di una vita significativa e degna di essere vissuta, qualcosa che va oltre la persona stessa, qualcosa di più grande di lei. Mindfulness, in estrema sintesi, è la qualità della consapevolezza che una persona porta alle proprie azioni (Linehan, 2001). L’autoefficacia è qui sostenuta da una motivazione intrinseca verso le proprie azioni quotidiane in aree di valore della persona, sempre meno preoccupata del sé concettualizzato, grazie alle abilità di mindfulness di osservazione e descrizione rispetto agli eventi privati indesiderati che così vengono accettati e non inefficacemente evitati, e sempre di più nel contesto di un sé transpersonale.
Attenzione e Accettazione
Si espongono ora le capacità che indicano come si osserva, descrive la propria esperienza e ad essa si partecipa. L’accettazione riguarda in particolare il prestare attenzione al processo dell’esperienza, in una particolare maniera, ovvero (Kabat-Zinn, 2010; Linehan, 2001):
- Non giudicante;
- Intenzionalmente;
- Al momento presente.
Prestare un’attenzione in maniera non giudicante significa riportare i fatti dell’esperienza, piuttosto che le valutazioni della stessa sul piano del “buono” e “cattivo”. Questi sono atteggiamenti che appartengono al sé concettualizzato. Carl Rogers parla nello specifico di locus di valutazione interno, ossia il contatto con quel punto di riferimento dentro di sé e non riposto in qualche autorità esterna, psicologo compreso, affinché il processo valutativo organismico, ossia la capacità di dare giudizi su di sé al di là di qualsiasi bisogno di approvazione altrui – significativo, generalizzato, o interiorizzato e fantasmico che sia – venga ripristinato (Mearns, Thorne, 2009).
Prestare un’attenzione in maniera intenzionale significa coltivare la fiducia verso l’esperienza diretta degli eventi, piuttosto che quella indiretta offerta dalla fusione e identificazioni con i contenuti della propria mente. Connesso con l’atteggiamento non giudicante, esso guarda alle conseguenze degli eventi, ragiona in termini pragmatici, nel senso che potranno esistere comportamenti efficaci o inefficaci, rispetto agli obiettivi e ai valori di vita, piuttosto che “giusti” o “sbagliati”, evitando inutili attribuzioni personali negative, distaccandosi dal confronto con standard ideali o imperativi, soprattutto rispetto a quello che si prova, in termini di pensieri e sentimenti.
Prestare un’attenzione al momento presente significa focalizzarsi su ciò che si sta facendo, istante dopo istante, una cosa alla volta. Le pratiche meditative e la vipassana coltivano questo atteggiamento, come il prestare particolare cura alle attività quotidiane, quali lavarsi o mangiare, o il semplice camminare. La presenza mentale implica osservare, descrivere a partecipare al qui e ora, qualsiasi cosa vi sia, indipendentemente se piacevole o spiacevole, focalizzandosi su un’attività alla volta, passo dopo passo.
L’intervento
Il counseling psicologico promuove lo sviluppo dell’autoconsapevolezza e dell’accettazione ai fini della salute e del benessere psicologico (Mearns e Thorne, 2009). Esso condivide in pieno quindi gli obiettivi della mindfulness. In un approccio mindfulness al counseling sullo stress, la consapevolezza e l’accettazione sono qualità incarnate dal professionista, psicologo, nel senso che egli stesso, per l’efficacia dell’intervento, praticherà la consapevolezza e avrà un atteggiamento di accettazione, sia verso se stesso che la narrazione del cliente Esse sono anche le stesse qualità che il cliente esperisce in sé stesso nel setting di quell’intervento, sia in maniera vicaria, attraverso la funzione di rispecchiamento operata dallo psicologo, che in maniera diretta, medianteaddestramento alle abilità di mindfulness (Svagito, 2010; Segal et al. 2006; Mearns e Thorne, 2009).
Non è azzardato infatti affermare che non esiste approccio alla terapia e al counseling psicologico che non preveda per il cliente lo sviluppo della consapevolezza e dell’accettazione del proprio vissuto soggettivo – sul piano emotivo, cognitivo, corporeo e meta-cognitivo – prima di qualsiasi altro movimento verso il cambiamento (Mace, 2008). L’approccio alla mindfulness è semplicemente una via diretta a questa auto-consapevolezza, su tutti i piani menzionati e con particolare riguardo all’ultimo, come si è già detto più sopra (insight meta-cognitivo). In particolare, il rapporto di counseling, secondo una prospettiva mindfulness, faciliterà la promozione dell’efficacia delle strategie di coping del cliente nei confronti dello stress psicologico, attraverso lo sviluppo dell’insight meta-cognitivo, concepito in questo duplice senso:
- inefficacia delle strategie di coping basate sul controllo del proprio vissuto soggettivo e l’evitamento esperienziale, che conducono all’inattività e al senso di impotenza di cui è portatore il cliente stesso nel momento in cui giunge in seduta;
- sviluppo di abilità di mindfulness per facilitare l’accettazione delle esperienze private, quali pensieri e sentimenti difficili, attraverso la consapevolezza della loro natura essenzialmente vacua e impermanente.
In entrambi i casi, gli interventi dello psicologo incarneranno le qualità della consapevolezza e dell’accettazione e nella misura in cui queste verranno comunicate al cliente con le abilità di counseling – come ad esempio attraverso la comunicazione non verbale, l’ascolto attivo, le riformulazioni, le domande esplorative e di feedback, la confrontazione – tanto più il cliente vi si rispecchierà. Il setting dello psicologo avrà le qualità della mindfulness e il contesto esperienziale del cliente altrettanto. Le qualità dell’intervento, basate sulla congruenza, empatia ed accettazione, sono comuni al counseling e alla mindfulness (Mearns e Thorne, 2009; Svagito, 2010).
Lo psicologo, nell’accogliere la richiesta di aiuto del suo cliente, non prescinderà dall’analisi della domanda di cui è portatore quest’ultimo. Indipendentemente dal contenuto della narrazione del cliente – che potrà riguardare particolari questioni fisiche, familiari, lavorative, di copia, ecc. – la persona racconterà una storia di fallimenti, fatta di modalità di coping basate sul controllo e l’evitamento, in merito al suo vissuto soggettivo. Il cliente narrerà il suo problema sia in termini di fatti che di sentimenti. Parlerà di obiettivi di risultato, come ad esempio “vorrei avere una vita sociale più intensa”, che di obiettivi di processo, come ad esempio “vorrei disfarmi della mia insicurezza e timidezza”, e dove i secondi vengono solitamente esposti come condizioni necessarie per il raggiungimento dei primi. Il cliente appare quindi motivato verso un risultato concreto, ma bloccato sul piano delle modalità per conseguirlo (Hayes et al, 1999). Il cliente ha già tentato di risolvere il suo problema ancor prima di venire in consultazione. Le suetentate soluzioni appaiono solitamente come una serie di sforzi fatti per sentirsi meglio. Ad esempio, potrebbe aver “rinunciato a socializzare” nell’attesa di sentirsi “meno timido”. Tendenzialmente, il cliente avrà infatti già ampiamente lavorato, ma solo sugli obiettivi di processo, e non su quelli di risultato. Avrà probabilmente messo la sua vita in stand by nell’attesa di sentirsi diversamente da come si sente (es. più coraggioso e fiducioso, piuttosto che meno ansioso e sfiduciato), perseguendo uno schema di sé che più o meno recita, per fare eco all’analisi transazionale, “io non sono ok”, o più semplicemente “così’ come sono non vado bene”. Emerge qui la presenza di una sofferenza doppia, data sia dal vissuto soggettivo (ad esempio, di ansia), che dal fatto oggettivo (ad esempio, di isolamento sociale) e tutto per proteggere la propria autostima, che non può che non essere distorta dai processi messi in atto dal cliente stesso.
Dal punto di vista psicologico, il vero problema è l’illusione del controllo di cui è vittima il cliente (Harris, 2010). Quest’ultimo, nonostante la sua esperienza gli dica altro, continua a seguire la sua mente, che persegue a narrargli la storia che è possibile controllare i propri sentimenti difficili e che solo dopo avergli imbrigliati o esserne sbarazzati sarà possibile vivere una vita meritevole di essere vissuta. Come un cane che si morde la coda, le strategie di controllo nei confronti del proprio vissuto soggettivo portano all’evitamento esperienziale, che genera a sua volta una serie di ulteriori stressor che non fanno altro che riattivare le medesime tentate soluzioni, in un circolo vizioso dal quale sembra impossibile uscire. L’illusione del controllo, rispetto alle esperienze private indesiderate, è bene che venga accolta dallo psicologo come una normalità patologica (Hayes et al., 1999) ossia come una modalità di approcciare al proprio vissuto soggettivo che è facilmente riscontrabile nel comune individuo sano, in quanto, culturalmente e globalmente, esiste un pregiudizio nei confronti dei sentimenti e dei pensieri, ossia che essi possano essere giusti o sbagliati, desiderabili o indesiderabili, buoni o cattivi. Fin dall’infanzia siamo educati a nascondere i sentimenti etichettati come sbagliati (come ad esempio la rabbia, ma anche il normale dolore) e soprattutto a combatterli; anche i media promuovono un ideale di super essere umano, che è sempre efficiente e di sente sempre appagato, come se l’individuo avesse un potere su quello che sente. Ogni persona ha il controllo sul proprio comportamento invece. Le abilità di mindfulness facilitano quella distanza sufficiente dai propri pensieri e sentimenti disturbanti, senza necessariamente metterli in discussione, affinché si possano portare a termine le azioni importanti che concretizzano le aree di valore di una persona, fosse in ambito della salute, piuttosto che familiare o lavorativo (Harris, 2010).
Gli interventi confrontativi sulle incongruenze del cliente, sulle sue strategie di coping, le sue tentate soluzioni, avvengono sul piano dell’efficacia, piuttosto che del giudizio. Secondo un approccio mindfulness al colloquio clinico, non esistono eventi privati, pensieri, emozioni, narrazioni contestabili sul piano del loro contenuto, ma solo sul piano della loro efficacia, secondo un concetto di funzionalità o utilità (workability) e non altro (Hayes et al, 1999). Si sollecita la consapevolezza che è possibile continuare ad agire con pensieri e sentimenti difficili e che non occorre attendere che se ne vadano per poter agire. Il cliente infatti, nella sua narrazione, tenderà a dire frasi come la seguente: “vorrei avere una relazione soddisfacente con la mia partner, ma provo troppa rabbia per riuscirci”. Il “ma” è sostituito da “e”, con riformulazioni del tipo: “lei vorrebbe una relazione più soddisfacente con la sua partner e prova una sensazione di rabbia e pensa che sia questo a impedirle di agire come vorrebbe”. Lo psicologo non contesterà la veridicità del contenuto della narrazione, quanto la sua utilità e su questo farà confrontare il cliente. Riportiamo qui di seguito lo stralcio di un esempio di un possibile colloquio in merito a quanto appena esposto (Harris, 2009):
- CLIENTE: Ma è vero. Sono veramente grassa. Guardami. (La cliente afferra due grossi rotoli di grasso attorno al suo addome e li scuote per enfatizzare il punto).
- PSICOLOGO: Una cosa le posso garantire: in questa stanza non faremo mai un dibattito riguardo a ciò che è vero o falso. Quello che ci interessa è cos’è utile o cosa non lo è affinché lei possa vivere una vita migliore. Perciò, quando la sua mente incomincia a raccontarle “Sono grassa”, cosa le accade?
- CLIENTE: Sono disgustata di me stessa.
- PSICOLOGO: E poi cosa?
- CLIENTE: Poi mi deprimo.
- PSICOLOGO: E se io stessi guardando un video di lei, cosa la vedrei fare quando si sente depressa e disgustata di stessa?
- CLIENTE: Probabilmente starei seduta di fronte alla TV mentre mangio un gelato.
- PSICOLOGO: Perciò, lasciarsi catturare dal pensiero “Sono grassa” non sembra molto utile, sbaglio?
- CLIENTE: No, non è utile, ma è vero!
- PSICOLOGO: Beh, mi lasci dire ancora: ciò a cui siamo interessati non è se un pensiero sia vero o falso, ma se è utile o meno. Quando quel pensiero spunta nella sua testa, l’aiuta lasciarsi catturare da esso? La motiva a fare esercizio, o a mangiare meglio, o a trascorrere il tempo in cose che l’arricchiscono e gratificano?
- CLIENTE: No.
- PSICOLOGO: Dunque, cosa ne dice se potessimo fare qualcosa di diverso, se lei potesse imparare un’abilità tale che la prossima volta che la sua mente incomincia a raccontarle la storia “Sono grassa” lei non dovesse per forza venirne risucchiata?
È possibile inserire il cliente in un training specifico di gruppo per la riduzione dello stress, come accade per i ritiri di meditazione mindfulness, basati sulla vipassana. Fin dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo esiste un protocollo standardizzato in tal senso, quale è quello conosciuto con l’acronimo MBSR – Mindfulness Based Stress Reduction (Kabat-Zinn, 2010) e sulla falsa riga di questo molti altri ne sono venuti (per una rassegna, Mace, 2010). La meditazione rimane tutt’ora la tecnica più conosciuta nell’ambito della psicologia della mindfulness, ma molti se ne discostano ultimamente, essendo spesso difficile chiedere ai clienti di sottoporsi a un training rigoroso. Attualmente, qualsiasi tecnica che concerna lo sviluppo dell’attenzione sul momento presente e un atteggiamento di accettazione è una tecnica di mindfulness (Hayes e Shenk, 2004). Trattasi di tecniche cognitive di mindfulness che possono essere adottate dal cliente in vivo, nel momento dello stress, per l’efficacia del coping piuttosto che come tecnica di recovery, come accade invece ad esempio con l’addestramento al rilassamento. Questa visione è condivisa sia dalla DBT –Dialectical e Behavioral Therapy (Linehan, 2001), che parla della abilità di mindfulness prima definite come osservazione, descrizione e partecipazione insieme alle qualità che costituiscono l’accettazione e di cui si è già discusso, sia dal modello riconosciuto oramai a livello internazionale dall’acronimo ACT –Acceptance And Commitement Therapy (Hayes et al., 1999; Harris, 1999), che, data la sua versatilità, è utilizzato ampiamente in diversi ambiti terapeutici, di counseling e di coaching, ed è stato recentemente oggetto di alcune pubblicazioni di tipo self-help (Harris, 2010; Hayes e Smith, 2010) e alle quali rimandiamo per gli approfondimenti (vedere anche Hayes et al, 1999; Harris, 2009).
Conclusioni
Non esiste ancora un modello di counseling psicologico basato sulla mindfulness,ma la letteratura su entrambi i temi ci ha permesso di individuare numerosi punti di contatto e obiettivi comuni, perciò i due approcci sono intuitivamente integrabili. Dall’analisi della letteratura sull’argomento e collegando tra loro le relative tematiche comuni, è stato possibile argomentare che la mindfulness nell’intervento di counseling sullo stress, integra e indirizza il colloquio verso il qui e ora. Essa altresì facilita, con apposite tecniche, sia meditative che non, lo sviluppo della consapevolezza, sia cognitiva, che emotiva, che corporea, oltre che, soprattutto, meta-cognitiva, ossia della strategie di fronteggiamento efficaci e basate sull’accettazione, invece che sul controllo e l’evitamento degli eventi privati indesiderati, promuovendo lo sviluppo del Sé.
Bibliografia
-
- Bishop S. R., Lau M., Shapiro S., Carlson L., Anderson N. D. (2004).Mindfulness: a Proposed Operational Definition. Clinical Psychology: Science And Practice, Vol 11, pp 230-241.
- Csikszentmihàly, M. (1990). Flow and the Psychology of Optimal Experience. Harper and Row, New York.
- Harris R. (2009). ACT Made Simple. New Harbinger, Oakland.
- Harris R. (2010). La Trappola della Felicità. Erickson, Trento.
- Hayes S., Shenk, C. (2004). Operationalizing Mindfulness without Unnecessary Attachements. Clinical Psychology: Science and Practice, Vol 11, pp 249-254.
- Hayes, S., Smith, S. (2010). Smetti di Soffrire e Inizia a Vivere. Franco Angeli, Milano.
- Hayes, S., Strosahl, S. Wilson K. (1999). Acceptance and Commitment Therapy. Guilford, New York.
- Kabat Zinn J. (2010). Vivere Momento per Momento. Tea, Milano.
- Linehan, M. (2001). Trattamento Cognitivo-Comportamentale del Disturbo Borderline. Cortina, Milano.
- Mace C. (2010). Mindfulness e Salute Mentale. Astrolabio, Roma.
- Mearns D., Thorne B. (2009). Counseling Centrato sulla Persona. Erickson, Trento.
- Segal, Z. Williams, J. Teasdale J. (2006). Mindufulness. Bollati Boringhieri, Torino.
- Svagito (2010). Lo Zen e l’Arte di Fare Terapia. Urra, Milano.