Il colloquio clinico è una tecnica di osservazione e di studio del funzionamento psichico umano: gli scopi sono: “raccogliere informazioni” (colloquio diagnostico), “motivare” e “informare” (colloquio terapeutico e di orientamento). Per Sullivan il colloquio clinico “consiste in una situazione in cui la comunicazione avviene tra due persone che s’incontrano, più o meno volontariamente, sulla base di un rapporto esperto-cliente. Lo scopo è quello di chiarire il modo caratteristico di vivere della persona in esame, dalla cui chiarificazione si attende un beneficio”.
Un colloquio prevede dei presupposti, cioè è reso possibile da un contesto motivazionale specifico, in cui esista una richiesta di aiuto, esista un professionista con una propria competenza tecnica ed esistano delle aspettative condivise circa la possibilità di ricevere/fornire aiuto. Da ciò scaturisce l’importanza dell’interpretazione, intesa come assunzione di un atteggiamento orientato alla donazione e alla costruzione di senso. Si riconosce l’importanza di creare un setting, un assetto relazionale e intrapsichico, che serve da cornice e da contesto al colloquio.
Nel colloquio il paziente ha un ruolo attivo come lo psicologo, anche se è quest’ultimo che ha il dovere di guidare il gioco e di saper guidare il gioco. L’atteggiamento del professionista deve essere di rispetto, di empatia e di fiducia, per permettere al paziente di sentirsi a proprio agio e consapevole di confidare a chi gli sta di fronte, esperienze e vissuti emotivi, ad una persona che ha come unico obiettivo, il benessere del paziente stesso.
Attraverso la restituzione nel colloquio, si può incrementare il legame e il desiderio progettuale del cambiamento, sempre che questa avvenga nei termini e tempi giusti per quel paziente. Perché ciò sia possibile è indispensabile il rispetto della neutralità, intesa come capacità da parte dello psicologo di sacrificare desideri e ricordi personali per favorire il processo di conoscenza dell’altro. Indubbiamente, anche la personalità dell’esaminatore entra attivamente in questo rapporto e lo condiziona: i suoi atteggiamenti, le sue ipotesi interpretative contribuiscono a modellare il rapporto ed influiscono in modo determinante sui risultati.
Nel colloquio clinico psicologo e paziente comunicano a vari livelli: attraverso contenuti, attraverso il contesto e attraverso le espressioni non verbali.
1. Per contenuto ci si riferisce alle espressioni verbali e alle azioni del soggetto. Tenendo presente le tappe dello sviluppo della personalità del soggetto che è venuta maturando nei rapporti familiari, scolastici, professionali e sociali, i punti salienti che devono essere toccati nel colloquio sono: composizione della famiglia e clima affettivo, eventi fondamentali dell’infanzia, salute fisica, relazione extrafamiliare, esperienze in relazione all’educazione scolastica, vita affettiva sessuale, relazioni sociali, vita professionale, utilizzazione del tempo libero, livello socio-economico raggiunto.
2. Altra caratteristica del colloquio è il contesto in cui si pone il comportamento del soggetto. Il colloquio clinico si pone come un contesto particolare in cui esaminato ed esaminatore hanno diversi e specifici ruoli.
3. Infine, elemento fondamentale del colloquio è il comportamento non verbale. Esso fornisce ulteriori informazioni su comportamenti, atteggiamenti posturali che il contenuto verbale non è in grado di fornire. È di fondamentale importanza soprattutto quando il soggetto non è in grado di verbalizzare stati emotivi di cui egli stesso non è pienamente cosciente. Inoltre i segnali non verbali emessi dal soggetto, (la vicinanza fisica, la postura, i gesti delle mani, i cenni del capo, le espressioni del volto ed, in particolare, lo sguardo), costituiscono una fonte di informazioni importante per il professionista nel cercare di capire il modo in cui il soggetto si relaziona. Anche tutti gli elementi che costituiscono l’aspetto esteriore, (il volto, la conformazione fisica, l’abbigliamento, il trucco), sono fonti di importanti informazioni. Lo studio di tutti questi aspetti ha rilevato una relazione molto stretta tra stato emozionale dell’interlocutore e manifestazioni paralinguistiche. Ekman sullo stesso argomento scrive che il comportamento non verbale ha uno speciale valore simbolico che esprime, in un elementare linguaggio del corpo, atteggiamenti forse inconsci circa l’immagine di sé e del corpo.
Il materiale raccolto derivante da questi tre tipi d’informazione deve poi essere sottoposto ad un esame critico per valutarne la verosimiglianza oppure l’eventuale contraddittorietà ed organizzati in una rappresentazione coerente e unificata.
Nella formulazione di un giudizio l’esaminatore può incorrere in diversi errori:
- egarsi, nella fase iniziale del colloquio, ad una sola ipotesi ovvero ad un’impostazione iniziale prevenuta che lo porta a ricercare solo i sintomi che la confermino;
- usare particolari regole d’identificazione definite come stereotipo ampiamente condiviso;
- attribuire caratteristiche presunte (es. tende ad attribuire caratteristiche positive a chi gli risulta simpatico)
- tendere a presumere che il soggetto sia simile a lui caratterialmente (proiezione attributiva).
In realtà, già l’emissione stessa di un giudizio può creare un etichettamento rigido che determina un fenomeno di “determinazione verbale” in base al quale un paziente viene stigmatizzato e categorizzato come schizofrenico, psicotico, nevrotico. Ai fini della pratica clinica invece è utile l’uso del concetto di stile comportamentale che consente di individuare più particolari schemi di comportamento i quali vanno a costituire il repertorio espressivo di un individuo.